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I RACCONTI DELL'OLIO N.4 - NESSUNO BASTA A SE STESSO

Posted 3 Aprile by Olio Conte Racconti 0  Comments

I Racconti dell’ olio

N° 4

Nessuno basta a se stesso

 

La vita non è sempre facile, si attraversano periodi difficili ed altri meno. Questo succede sia alle persone che alle comunità. E’ nei momenti difficili che si manifesta l’indole delle une e delle altre. In tempi che furono c’era un paesino, Lama, dove la comunità era spaccata: da una parte i poveri e dall’altra i benestanti. La natura era generosa ma a trarne vantaggio erano in pochi. La terra era posseduta da poche famiglie che pensavano ad arricchirsi sempre più e consideravano il popolino un’accozzaglia di scansafatiche. I poveri lavoravano alla giornata e solo se erano servili verso i padroni, altrimenti per loro c’era la fame. Le orecchie erano chiuse da un’opulenza egoista. Quando era il periodo della trebbiatura del grano, dopo averlo falciato a poche donne era consentito spigolare. Sulla farina ottenuta spesso anche il mugnaio faceva la cresta e nei periodi magri più del solito molte sere si andava a letto a stomaco vuoto. L’olio era prezioso e la ricchezza dei benestanti derivava anche dalla vendita dell’oro verde. In pochi possedevano enormi uliveti e frantoi. Chi lavorava alle loro dipendenze stava zitto e sopportava, per portare a casa un misero guadagno. Si faceva la campagna del vino e quella dell’olio e spesso per trarre l’energia necessaria si mangiavano fichi secchi. I poveri affittavano per pochi soldi gli alberi di fico per raccogliere i frutti, seccarli e mangiarli d’inverno. Sulle mense solo in occasione delle più importanti feste compariva un pollastro o un coniglio. Chi aveva un bottiglione di olio si considerava fortunato, perché indispensabile a condire i semplici pasti. Tutto questo nei tempi buoni. Quando però la natura diventava matrigna la vita peggiorava ed i bambini cenciosi vagavano per le strade sempre più pallidi e magri. I primi a rimetterci erano proprio loro e spesso si sentiva suonare la campanella che annunciava l’arrivo di un nuovo angioletto in cielo. Talvolta i padri ubriachi scaricavano sui figli la tensione con le busse. I benestanti vivevano nelle loro comode case serviti da donne, uomini e bambini, non prestando attenzione ai loro bisogni. Anche le preghiere erano state adattate alle loro necessità e quando pregavano chiedevano al Signore di continuare a favorirli, perché senza di loro la comunità si sarebbe disgregata, non ci sarebbe più stato ordine né legge. In una bella casa con un enorme giardino viveva la famiglia di don Leo, che aveva un cruccio: l’unico figlio, Arturo, un bambino di otto anni, trascinava la propria vita come un vecchio, distaccato da tutto e da tutti. Era una lotta quotidiana farlo mangiare, eppure sulla tavola vi erano le migliori pietanze della cucina, con numerosi dolci che avrebbero scatenato l’acquolina dei mocciosi di Lama. Arturo li guardava e girava gli occhi dall’altra parte. Il padre ammetteva in casa solo bambini del suo stesso ceto che, consapevoli della condizione del piccolo, gli facevano scherzi crudeli e lo deridevano. A poca distanza viveva una famiglia del popolino: Rosa e Fedele ogni giorno dovevano ingegnarsi per sbarcare il lunario. Eppure, nonostante le difficoltà, i bambini erano sereni, gioiosi. Vivevano in un’unica stanza con, in un angolo, il focolare ed un piccolo tavolo. Di sedie ve ne erano solo tre, anche se i membri erano sei. Accostato ad un muro vi era un enorme letto, fatto di un pagliericcio adagiato su tavole sorrette da cavalletti di ferro. Era così alto da dover usare la sedia per salirvi sopra. Il letto non bastava ed alcuni bambini dormivano per terra su pagliericci di fortuna, ma al caldo vicino al caminetto durante la stagione fredda. L’armonia imperava in quella casa, perché i bambini erano amati e curati secondo le possibilità della famiglia. Se Alfio era raffreddato e rischiava la bronchite, mamma Rosa gli massaggiava energicamente il petto con olio tiepido e nel giro di pochi giorni il malanno spariva. Se Gino aveva i muscoli dolenti per il troppo correre bastava un massaggio con olio per ridare vigore alle membra. I pasti erano semplici ma gustosi: pancotto, farinata, “morsi”, “cialatedda” e tanti fichi secchi. Non mancavano mai i legumi, considerati la carne dei poveri. La giornata dei piccoli si svolgeva in strada, dove si aggiungevano agli altri monelli per divertirsi e inventare sempre nuove avventure. Si giocava con i sassolini a “quaci” o “ tuddri”:il gioco richiedeva diverse fasi, due delle quali consistevano nel far entrare una pietruzza nel portone o nella forcella, formati dalle dita di una mano, mentre con l’altra si lanciava un sassolino in alto riprendendolo, subito dopo il gol, prima che toccasse terra. Si giocava a “stira-llenta” girando velocemente in due fino a confondere la visione. Altro gioco consisteva nel dare uno schiaffo al prescelto senza esserne riconosciuti, il malcapitato spesso sbagliava ad indicare l’artefice e riceveva altri ceffoni. Per non parlare delle corse infinite fatte su strade polverose e in campi coperti di piantine spinose. In primavera-estate si rubava la frutta dai campi dei benestanti per riempirsi la pancia. Arturo guardava dal muro di cinta i mocciosi e si immalinconiva sempre più. La situazione era arrivata ad un punto tale che i genitori temevano per la salute del figlio. Un giorno particolarmente caldo, Arturo decise di fuggire dalla sua prigione dorata per mischiarsi tra i monelli del paese. Il capo della banda delle “giuggiole”, vedendolo andare verso di loro, capì il problema e volendo divertirsi accettò il nuovo arrivato solo a condizione che facesse tutto ciò che gli comandava. Il primo giorno Arturo fu strattonato, deriso, preso a ceffoni, ma sopportò perché finalmente stava tra bambini veri. Il piccolo ritornò a casa impolverato e si scusò, ma disse di aver fatto due passi nei campi. Per alcuni giorni fu cosi però, all’ennesimo, Alfio, Gino, Matteo e Pippi si intenerirono e decisero di cambiare comportamento. Quando Arturo uscì di casa gli andarono incontro staccandosi dal resto della banda, che non accettò volentieri i cambiamenti. Ci fu una rissa dalla quale i quattro fratelli uscirono malconci ma contenti. Anche Arturo si diede da fare, suggellando così l’amicizia. Dopo la rissa andarono da mamma Rosa che pulì le ginocchia sbucciate ed i lividi lavando le parti e ungendole di olio. Poi diede loro da mangiare del buon pancotto. Arturo fu trattato come i figli, perché dei bambini bisognava sempre aver cura, pensava mamma Rosa. Ritornando a casa Arturo, ferito e lacero, raccontò tutto ai genitori che videro in lui un cambiamento radicale: finalmente si comportava come un bambino felice. Don Leo capì che doveva permettergli di stare con i bambini che il piccolo aveva scelto per amici e, contento, gli permise di frequentarli. Grato per ciò che mamma Rosa aveva fatto, una sera fece deporre davanti all’uscio della famigliola una forma di pane fragrante, un sacchetto di farina ed una damigianetta di olio extravergine. Quando Rosa ed Alfio trovarono i doni ringraziarono Dio per la provvidenza ricevuta. Dopo qualche giorno ricevettero una richiesta da parte di don Leo: andare a lavorare per lui per una paga dignitosa.

A.R.G.